Che cosa significa la vittoria dell’Argentina ai mondiali di calcio

Avrà anche ottenuto l’assegnazione del massimo torneo calcistico internazionale in maniera tutt’altro che trasparente, sarà pure attualmente al centro del più grande scandalo di corruzione dell’Unione Europea, sarà stato smascherato per le migliaia di morti bianche nei cantieri dei lavori per la Coppa del mondo, ma alla fine a Doha lo possono dire: i Mondiali del 2022, che hanno visto trionfare sul campo l’Argentina di Lionel Messi ai rigori sulla Francia campione uscente, li ha vinti il Qatar. Perché sì: organizzare un evento di portata emotiva globale come un Mondiale è ancora una mossa politica che paga dividendi altissimi per chi la mette in atto.

Vedere Lionel Messi – il miglior giocatore del mondo, forse nel culmine più alto della sua gloria personale e di condottiero della sua nazionale dopo tanti anni di delusioni – alzare il trofeo di campione del mondo indossando il bisht, un mantello tradizionale per l’abbigliamento maschile in uso nel mondo arabo (che peraltro è tesserato dal Paris Saint-Germain, club di proprietà di Qatar Sports Investments), vale per gli organizzatori più di tutte le critiche ricevute, perché nell’era delle immagini quella fotografia è destinata a imporsi. 

La narrativa dell’efficienza organizzativa durante le settimane della manifestazione, così come gran parte dei giornalisti e ospiti presenti non ha perso occasione di lodare la magnificenza degli stadi e del contesto, potendo godere non solo del sole d’autunno (almeno dell’autunno europeo), ma anche della possibilità logistica di assistere dal vivo a più partite rispetto a qualsiasi altro Mondiale, aspetto tutt’altro trascurabile per chi un evento del genere ha la fortuna di raccontarlo in loco e spesato, basti vedere come hanno deciso di spostato la possibilità di svolgere i Mondiali nei mesi invernali europei ma autunnali in Qatar, rispetto al solito periodo estivo che l’ha sempre caratterizzato. 

Questo chiude alla perfezione il cerchio di un Mondiale che avrà anche acceso i riflettori sui livelli insufficienti in tema di democrazia e diritti civili, ma anche dall’appuntamento clou della sua strategia di propaganda attraverso lo sport, ottenendo praticamente tutto ciò che ha voluto, complice anche una FIFA prona a tutti i diktat degli organizzatori (le stesse proteste, a partire da quella iconica dei calciatori della Germania sui diritti LGBTQI+, ricadono sulla massima istituzione calcistica, non sul Qatar). 

Il momento in cui l’emiro qatariano Tamim bin Hamad Al Thani veste il campione argentino con l’indumento tradizionale locale, sotto lo sguardo compiaciuto del presidente della FIFA Gianni Infantino

Poche nazioni sono ossessionate dal calcio come l’Argentina e pochi esseri umani hanno mai avuto così tanto talento come Lionel Messi. La passione e l’intensità con cui l’Argentina vive il rapporto con la sua nazionale di calcio, specialmente negli appuntamenti mondiali, è stata così raccontata da sembrare un luogo comune. Le cronache di questi giorni in corrispondenza del torneo in Qatar confermano però questo rapporto centrale del calcio e della squadra nazionale nella società argentina: non ha corrispettivi nel mondo, se non in Brasile.

Il tifo e la passione per la nazionale sono una costante in Argentina, almeno dagli anni Settanta. Ai Mondiali di quest’anno però gli argentini sembrano aver investito sulla loro nazionale speranze anche superiori al consueto, come elemento di orgoglio, riscatto e unità nazionale.

Dopo più di vent’anni di disastri economici e umiliazioni politiche, con un’inflazione all’80% su base annua e con il 36% dei suoi cittadini che vive in condizioni di povertà, la seconda maggiore economia del Sudamerica non ha più accesso ai fondi internazionali, con un debito di oltre 40 miliardi di dollari con il Fondo Monetario Internazionale e sembra essere vicina a esaurire le proprie riserve monetarie.

Per questo gli argentini «hanno bisogno» di un buon risultato nei mondiali, soprattutto ora che la situazione politica ed economica sta tornando a peggiorare con la condanna della loro vicepresidente per corruzione. Per questo stanno riponendo enormi speranze nella loro nazionale, come unico modo per sfogare un nazionalismo molto presente in tutti gli ambiti politici ma anche molto umiliato dagli eventi di questi anni.

Le commistioni fra politica e calcio sono sempre state numerose, nella storia dell’Argentina ai Mondiali, a partire dall’edizione del 1978 vinta in casa durante la dittatura militare. Nel 1986 la seconda e ultima vittoria, dalla squadra di Diego Armando Maradona, diventò una rappresentazione del potenziale di un paese tornato alla democrazia e desideroso di prendersi le proprie rivincite, a partire da quelle sull’Inghilterra, sconfitta dai gol di Maradona (uno di mano, uno bellissimo: entrambi storici) per riscattare l’umiliazione delle Falklands/Malvinas.

tifosi argentini di Buenos Aires, crediti: AP Photo/Victor R. Caivano

Al centro della squadra, dell’attenzione e della pressione c’è Lionel Messi, arrivato al suo ultimo Mondiale alla venerata età di 35 anni e investito della missione di riportare al titolo l’Argentina dopo oltre 36 anni. Vincitore per sette volte del Pallone d’Oro, considerato il miglior giocatore argentino dopo Maradona e uno dei migliori di sempre, ha vissuto con la nazionale una storia contrastata, riuscendo a centrare il primo grande trofeo con la maglia dell’Argentina solo un anno fa, con la vittoria nella Copa America.

Eppure il rapporto tra i due – un uomo e la sua patria – è stato profondamente complicato.

Leo è nato in Argentina ma è diventato adulto e una star in Europa. Ha accumulato premi e titoli con la rinomata squadra catalana FC Barcellona, ma per molti anni ha lottato per vincere con la nazionale argentina. E nonostante il suo status di forse il miglior giocatore del mondo, in Argentina ha vissuto e giocato all’ombra di Diego Maradona, il cui stile sfacciato lo ha reso caro agli argentini a differenza del riservato Messi.

In una calda domenica di quel 18 dicembre, questa nazione di 47 milioni rivolgerà le sue speranze a “La Pulce” per consegnare il suo primo titolo di Coppa del Mondo in 36 anni in quello che ha detto sarà l’ultimo tentativo della sua leggendaria carriera. Indipendentemente dal risultato, dopo anni di critiche che hanno portato anche alla breve partenza di Messi dalla nazionale, la dinamica è cambiata.

E alla fine riuscì a mantenere fede alla sua promessa.

Leo Messi sulle spalle di Sergio “Kun” Agüero mentre solleva la coppa in mezzo ai fan entrati in campo dopo il rigore decisivo di Montiel

Ma questo risultato è anche grazie all’altro Lionel, il ct Scaloni, l’uomo che è alla guida della Selecciòn dal 2018 e che ha portato nella bacheca del suo Paese prima la Copa America (dopo 28 anni di attesa) poi la terza Coppa del Mondo, scrivendo con pieno merito il suo nome nella storia di questo sport.

Scaloni condivide con Messi diverse cose oltre al nome, tra cui le lontane origini marchigiane, l’aver iniziato la propria avventura calcistica nelle giovanili del Newell’s Old Boys di Rosario e la lunga carriera nel calcio spagnolo: da giocatore Scaloni fu un difensore di buon livello e giocò per otto anni e mezzo con la maglia del Deportivo la Coruña, vincendo una storica Liga nella stagione 1999-2000 e disputando le semifinali di Champions League nella stagione 2003-04, dopo aver eliminato la Juventus agli ottavi e il Milan campione in carica ai quarti, le due finaliste della precedente edizione.

Scaloni concluderà poi la sua carriera nel campionato italiano, con le maglie di Lazio e Atalanta, ma senza troppa fortuna a causa di numerosi problemi fisici che ne mineranno il rendimento, costringendolo ad appendere gli scarpini al chiodo a 36 anni.

Dopo aver seguito Jorge Sampaoli come vice-tecnico sia al Siviglia che in nazionale (che si rivelerà una delle più fallimentari della storia del Paese sudamericano), prende le renditi dell’Albiceleste dopo il deludente mondiale 2018, in cui la Federazione deciderà di confermarlo sulla panchina dopo aver vinto sette delle nove amichevoli disputate e malgrado lo scetticismo dell’opinione pubblica locale.

Dopo una deludente Copa America nel 2019, i giornalisti in patria rimarcano le loro perplessità verso l’allenatore, i tifosi si dividono tra ottimisti e pessimisti, mentre i giocatori (soprattutto i senatori) sono tutti schierati dalla parte del loro tecnico, spingendo la Federazione per una conferma. Ed è proprio nella Copa America 2021 che si compie il primo capolavoro della carriera di Scaloni, che coincide (e non è un caso) con la prima vera rivelazione con la maglia della Selecciòn da parte di Messi.

Partendo da quest’ultimo, semplicemente non si era mai visto una Pulga così convincente e decisiva con la Nazionale, che a 34 anni gioca la miglior competizione internazionale della sua carriera (al di sopra anche del sopravvalutato Mondiale del 2014), che al di là delle singole statistiche (con 4 gol e 5 assist è il miglior realizzatore e rifinitore del torneo) dà finalmente l’impressione di essere davvero diventato trascinatore morale prima ancora che tecnico.

Non a caso dopo la sconfitta con l’Arabia Saudita all’esordio mondiale, l’ambiente si è compattato ancor di più intorno a Scaloni e ai suoi. Messi è sceso dal cielo in campo (contro il Messico), Scaloni ha fatto il resto, con scelte anche forti. L’Argentina è arrivata fino in fondo grazie ad un cambio di uomini (l’unica cosa che davvero conta, il fattore umano), mettendo in campo giocatori che sono sì giovani ma soprattutto tanto forti e pronti caratterialmente (Enzo Fernandez, Alexis Mac Allister Julian Alvarez su tutti).

Una menzione d’onore la meritano i tre “fedelissimi” di Scaloni, a cui nonostante le (troppo severe) critiche iniziali, il tecnico non ha mai rinunciato, schierandoli ad ogni partita, e venendo alla fine del percorso ben ripagato: si tratta di Emiliano “Dibu” MartinezNicolas Otamendi e Rodrigo de Paul.

Il finale del percorso non poteva che essere questo, quando dopo la nuova partita del secolo contro la Francia, dove gli dèi sono scesi in campo, realizzando in Lionel Messi – quasi inebetito da una vittoria tanto a lungo inseguita – un lampo di eternità, in Kylian Mbappé una profezia insieme futura e presente. Ma anche in Dibu Martinez l’umanità che è tanto folle da prendersi gioco del destino – che in quella parata di piede al 123° minuto di gioco si è compiuto una volta per tutte.

Nella bella storia dell’Argentina, è rimasto (immeritatamente) ai margini l’altro Lionel, Scaloni, un allenatore che, come scritto in un articolo pubblicato su Clarìn da Martin Voogd, “non era nei piani di nessuno, e ha sorpreso il mondo (…) resistendo alle critiche attraverso il lavoro (…) senza esperienza ma armato di buon senso (…) circondato da un gruppo di collaboratori in cui regna la capacità e non il clientelismo, hanno messo insieme una rete di protezione affinché Messi si liberasse da tutti i suoi fantasmi.”

Il CT Lionel Scaloni con la Coppa del Mondo

Ma non solo gli argentini tifano l’Albiceleste.

A 16mila chilometri da Buenos Aires, c’è Dacca, la capitale del Bangladesh. Le manifestazioni del tifo bangladese per la Nazionale argentina di calcio sono molte. Oltre alle decine di migliaia di persone che assistono alle partite davanti ad appositi maxischermi, riempiendo piazze e strade in caso di vittoria, ci sono perfino – soprattutto a Dacca ma anche in altre città – case dipinte con i colori argentini ed enormi bandiere lasciate sventolare sopra i tetti.

Il Bangladesh è l’ottavo paese più popoloso al mondo, con quasi 170 milioni di abitanti che vivono su una superficie che è circa la metà di quella dell’Italia. Fatta eccezione per un piccolo tratto di confine con il Myanmar, quasi tutto il suo confine è con l’India. Ottenne l’indipendenza nel 1971, dopo una guerra contro il Pakistan.

Lo sport nazionale è il cricket, in cui spesso il Bangladesh se la gioca con le migliori squadre al mondo. Ma anche il calcio è molto seguito.

In particolare, molti abitanti del Bangladesh iniziarono a seguire il calcio nella seconda metà degli anni Ottanta, quando iniziarono a diffondersi i primi televisori a colori. I primi Mondiali con un certo seguito televisivo furono quelli del 1986, che l’Argentina vinse dopo aver eliminato l’Inghilterra ai quarti di finale, nella partita in cui Maradona segnò, nell’arco di pochi minuti, un gol di mano e quello che in molti ritengono il gol più bello nella storia del calcio.

Per molti abitanti del Bangladesh, un paese a suo modo segnato dal colonialismo britannico in quella parte di mondo, non fu peraltro particolarmente difficile empatizzare per l’Argentina e lo spirito di rivalsa che i suoi abitanti avevano verso l’Inghilterra a pochi anni dalla fine della guerra delle Falkland, le isole che gli argentini chiamano Malvinas. Più nello specifico, in Bangladesh è molto ricordato il fatto che durante la Seconda guerra mondiale il Regno Unito fermò i suoi rifornimenti a quello che oggi è il Bangladesh, causando la gravissima carestia del Bengala.

Il tifo bangladese per l’Argentina non è però un caso isolato. Nel paese anche il Brasile ha un grande seguito, e in passato, in occasione della Coppa America, c’erano perfino stati scontri a Dacca tra tifosi argentini e tifosi brasiliani.

Credit Image: © Sazzad Hossain/SOPA Images via ZUMA Press Wire

Allo stesso modo, inoltre, anche in altri paesi asiatici le cui nazionali sono ben lontane dal qualificarsi ai Mondiali ci sono numerosi e appassionati tifosi di squadre straniere, che spesso finiscono per scegliere di tifare proprio Argentina o Brasile: una cosa che fa molto piacere alla FIFA, che da tempo punta molto sulla globalità del calcio.

È infine parecchio presente anche il tifo, in Qatar, di persone originarie del Bangladesh, che insieme a India, Nepal e Sri Lanka è tra i paesi da cui arriva la maggior parte dei lavoratori stranieri che tra le altre cose hanno lavorato per costruire stadi e altre infrastrutture di questi Mondiali, e che in molti casi sono morti facendolo.

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